di Sandro Desantis
marzo 2003
Un paio di anni fa apparve su un quotidiano romano un articolo sulla violenza femminile in Italia. Nel pezzo si metteva in evidenza (senza condannarlo) il fatto che molti mariti vengono regolarmente maltrattati e percossi dalle mogli.
Le compagne picchiatrici sarebbero soprattutto casalinghe del Centro-sud, forti consumatrici di serial televisivi; femmine, molto probabilmente frustrate nella loro vita quotidiana, che sfogano sui compagni la sostanziale insoddisfazione della loro esistenza identificandosi nello stereotipo (ridicolo) del modello femminile "aggressivo" fabbricato dai media. Basta vedere certi films americani nei quali femmine di 55 kg mettono ko uomini di 90/100 kg.; una vera e propria barzelletta dal momento che l'uomo è più forte della donna (del 30%) anche a parità di peso e di esercizio.
Apparentemente sembra difficile mettere assieme questi uomini maltrattati capaci solo di "abbassare la testa" e di prenderle senza reagire con gli altri, quei maschi che usano violenza sulle femmine, una violenza che, comunque, viene praticata da una minoranza che in diversi casi è la conseguenza dell'invisibile violenza femminile; affermazione, quest'ultima, inaudita nell'attuale società occidentale.
Due facce della stessa medaglia che, a mio avviso, sono il frutto di una "Società senza Padri" perché ciò che li accomuna è la mancata educazione degli uomini a riconoscere la propria aggressività e ad "addestrarla". La mancata educazione dell'uomo a gestire le proprie pulsioni aggressive è un fenomeno che risale alla seconda metà del secolo scorso quando cominciò ad affermarsi, sia sul piano pedagogico che su quello etico, una visione negativa dell'aggressività da condannare e sopprimere insieme alla sua manifestazione più evidente, la violenza fisica.
Un'assoluta stupidaggine. Il "problema" dell'aggressività, come di ogni forza vitale, è quello di riconoscerla dentro di sé e di educarla, non di sopprimerla, non di "amputarla". L'uomo che usa violenza contro la donna è l'altra faccia di quello che non sa reagire (neanche psicologicamente, troncando la relazione) di fronte ad una compagna violenta. A entrambi è mancata una figura maschile (padre o maestro) che gli abbia insegnato come "incanalare", esprimere e contenere la propria aggressività. Alla negazione di questo impulso nell'uomo ha corrisposto la "glorificazione" delle donne pugili (delle "caricature"...).
Come dire che ciò che nei maschi era un vizio, in loro si trasforma in virtù.
Due pesi e due misure adottate sempre e comunque.
Quando una madre uccide un/a figlio/a, le condizioni psichiche-emotive e l'intenzionalità condizionano il giudizio e la pena molto di più di quanto non avvenga per i padri che di regola vengono giudicati e condannati in base a dati oggettivi: reato compiuto ed effetti prodotti.
Già negli anni Settanta, negli Stati Uniti, Philip Resnick osservava una netta tendenza a considerare "malate" più che "assassine" le donne che uccidevano i propri figli, con il risultato che il 68% finiva in ospedale psichiatrico e solo il 27% in prigione. Per i padri assassini la proporzione era invertita: il 72% in prigione o dal boia e il 14% in manicomio.
Anche in Italia, da uno studio svolto dal Centro Studi Psicologia Applicata sulle perizie psichiatriche disposte per i reati contro la persona nel periodo compreso tra il 1978 e il 1994, emerge l'assoluta prevalenza di femmine (13 contro 5 degli uomini) nell'uccisione dei figli, reato che rappresentava il 54% degli omicidi femminili. In questi casi le femmine non erano mai giudicate capaci di intendere e di volere mentre gli uomini risultavano in possesso delle proprie facoltà, dunque imputabili, nel 40% dei casi.
Stessa violenza, due pesi e due misure.